È un fatto rilevante che The Catcher in the Rye abbia 26 capitoli.
Non so in che direzione sia rilevante, ma avverto questo dato, e lo segnalo.
Stanotte ho letto, prima in italiano e poi in originale, la sequenza XXV-XXVI. Mi è venuta in mente quella canzone di De Gregori, L’uccisione di Babbo Natale, in cui al termine di un complesso percorso iniziatico i due protagonisti, Dolly del Mare Profondo e il Figlio del Figlio dei Fiori, «si danno la mano e ritornano a casa / tornano a casa dai genitori».
Del XXV mi colpiscono tante cose. La giostra come checkpoint della crescita: Holden non va sulla giostra, Phoebe si sente grande («”I’m too big”, she said») però ci va, e fa diversi giri scegliendo «this big, brown, beat-up-looking old horse».
Mi commuove l’immaginario pericolo di sprofondare nel cemento della sede stradale fra gli isolati, una fantasia parallela all’«impiombamento» che ricorre in due scene, e la fantasia di salvazione e protezione a opera di Allie, il fratello morto. Si tratta di qualcosa di serio: il pensiero di scomparire inghiottito dalla strada fa sudare Holden «like a bastard», e l’attraversamento compulsivo va avanti fin oltre la Sessantesima strada.
Allie, don’t let me disappear. Allie, don’t let me disappear. Allie, don’t let me disappear. Please, Allie.